lunedì, novembre 17, 2014

Acquose pennellate di un chiaroscuro dell`anima

Piccole cose belle
Ricordo, con singolare nitidezza, la sensazione che mi accolse e mi accompagno`, in un soleggiato pomeriggio d`autunno, durante una mia passeggiata pigra e rilassante nei giardini del 明治神宮 Meiji-jinguu, a Tokyo. Inutile soffermarsi sui mille dettagli che attirarono la mia attenzione per la loro squisitezza: odori, sensazioni, forme e suoni.

Tutto intorno a me attraversava i filtri delle mie percezioni lasciando sempre un senso di malinconica felicita`.

Un punto del vasto giardino che circonda l`antico edificio mi colpi`.

Non vi era nulla in quel punto, se non un`aggraziata recinzione di legno e dell`erbetta curata.

Rimasi pero` affascinata da quell`angolo dove giocavano i raggi di un sole del tardo pomeriggio con i primi segni delle tenebre del tramonto. Era il contrasto fra luce e ombra, in quell`angolo solitario che mi dava l`impressione di essere triste e al contempo sereno.

Da qualche parte, nella vasta scia punteggiata dalla miriade di cose perse, lasciate volutamente, sottrattemi oppure semplicemente dimenticate distrattamente chissa` dove, vi sono alcune foto che scattai nel goffo e maldestro tentativo di catturare la sensazione provata.

Ma penso sia meglio non ritrovarle perche`, le ricordo bene, non mostravano nulla se non un solitario appezzamento di terra in un pomeriggio qualunque.

La macchina fotografica, specie se usata da mani inesperte come le mie, non agira` mai da specchio alle sensazioni ricevute dal cuore. Anzi. Fara` da secchio colmo d`acqua gelida che, versato su quelle emozioni non facilmente articolabili, ne spazzera` via ogni traccia.

E in una tranquilla e semplice sera d`autunno torinese, in una biblioteca di periferia circondata dall`oscurita` di un muro fatto di alberi e case forse anonime, ho trovato sugli scaffali ben ordinati la versione italiana di 陰影礼賛 In-ei raisan, letteralmente sarebbe "L`elogio dell`ombra" di Tanizaki Jun`ichiroo.

Non amo particolarmente Tanizaki per vari motivi. La sua e` una scrittura che porta il lettore ad esplorare confini della mente e dell`etica che io non voglio esplorare e che preferisco evitare. La sua scrittura mi trasmette angoscia e malessere.

Ma In-ei raisan e` in una categoria a se`. Nelle sue pagine c`e` poco o nulla del malessere che Tanizaki mi trasmette con le parole.

Leggendo In-ei raisan, a dire il vero, dimentico chi sia l`autore. L`autore diventa una voce senza volto e senza nome i cui pensieri, pero`, per la maggior parte si trovano allineati con tutto cio` che sento io e che tuttavia era relegato nell`angolo delle sensazioni non articolabili.

Non mi dilunghero` sul libro e sul suo contenuto. A questo ci pensano gia` i vari siti di recensioni, di critica letteraria e via discorrendo.

Va precisato pero` che In-ei raisan e` un tributo all`estetica giapponese e ai suoi canoni apparentemente piu` volatili agli occhi occidentali.

E` l`esaltazione della penombra rispetto alla luce abbagliante che sfalsa, acceca, involgarisce e sottrae, a chi osserva, ogni forma di contemplazione.

Tanizaki ci spiega come le lacche giapponesi, ad esempio, siano state create per luoghi dalla luce fioca perche` solo li` riescono a sfoderare il loro ventaglio di contrasti ebano, vermigli e dorati.

Agli occhi occidentali una stanza tradizionale giapponese, una 和室 washitsu, appare spoglia e triste, ma in realta` e` tutto fuorche` spoglia.

Sono gli spazi vuoti dove la penombra gioca con sprazzi di luce delicata e scivolata attraverso i pannelli di carta delle porte 障子 shooji a possedere l`aggraziata bellezza che non possiamo - e non potremo - replicare addobbando ad nauseam una stanza con decorazioni e suppellettili cariche di colori e luci.


Pur risultando a tratti schizzinosamente nazionalista, Tanizaki ci spiega ad esempio l`ineguagliata bellezza della carta giapponese che assorbe lentamente i raggi di luce anziche` respingerli come farebbe quella occidentale.
L`autore dipinge un`immagine della donna giapponese dei tempi che furono e di come essa condusse sempre una vita riservata dove veniva protetta dagli sguardi estranei. La sua esistenza si srotolava essenzialmente fra le mura di casa, una casa ricca di stanze scure e di giochi tra luce e penombra.
E in quella penombra risaltava il candore della sua pelle, messa ancor piu` in evidenza dall`antica pratica dell` o-haguro お歯黒 ossia dell`annerimento voluto dei denti attraverso una soluzione a base di ferro e aceto.
Certo, se cercate immagini di donne con o-haguro vi appariranno strane, strambe, addirittura inquietanti.

Nella cultura occidentale, in generale, il nero non viene associato a qualcosa di positivo. Nero spesso significa sporco, poco chiaro, non comprensibile.

Ma bisogna immergersi, anche se solo per un attimo, nella visione nipponica dell`epoca che vedeva la bellezza nelle lacche scure e in tutto cio` che aveva una laccatura nera.

E i denti, anch`essi laccati di nero, assumevano un grado di fascino e bellezza particolari.

E Tanizaki, a tal proposito, fa una riflessione che colpisce:

"forse erano quelle stesse donne (...) a secernere, dalle dentature annerite e dalle punte dei capelli corvini, le tenebre in cui vivevano."


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