martedì, dicembre 13, 2011

Quel che resta


(A sinistra: Oshooyu, asazuke no mono, i miei saibashi, ed una tazza blu del Kanagawa).

Da quando ho lasciato il Giappone e da quando la mia vita e` stata stravolta e capovolta a trecentosessanta gradi, mi trovo abbastanza spesso a sentire la nostalgia della mia cucina a casa, nel Kanagawa.

Quella cucina era per me un luogo di tranquillita` innanzitutto, di grande creativita`, di voglia di sperimentare con ingredienti e utensili, di curiosita` ed allegria.

Era una cucina molto ampia, luminosa e tranquilla. Quasi tutte le sue finestre si affacciavano sul verde, tranne alcune da cui vedevo un sentierino che separava casa mia da quella dei miei vicini.

Nella mia libreria in salotto conservavo gelosamente una grande collezione di ricettari giapponesi, molti dei quali non utilizzavo ma amavo semplicemente sfogliare, leggere ed apprezzare per i propri contenuti e fotografie.

Non sono una grande esperta di cucina, ma forse solo una curiosona un po` pasticciona che ama addentrarsi in una cultura grazie anche ai sapori che questa ha da offrire a chi ha il desiderio di assaggiarli.

L`impermanenza di cio` che ci circonda, pero`, ritorna ogni tanto con grinta a ricordarci che c`e` ben poco di eternamente durevole.

Gente che esce dalla tua vita con la stessa velocita` e facilita` con cui ne era entrata a far parte; luoghi e suoni che prima ti erano famigliari come la tua pelle e che ora invece sono distanti, anche se ancora tenacemente presenti nel cuore.
Quel che resta e` a meta` tra il prezioso e il malinconico. Prezioso perche` e` l`essenza, il succo di cio` che avevamo e di cui ora e` rimasto un concentrato...la parte che forse conta di piu`!

Quel che resta e` come un attar di rose.

Malinconico perche` ad esso e` legata inevitabilmente la memoria di cio` che fu e non e` piu`.

La fragilita` che caratterizza l`esistenza umana mi ha mostrato il suo volto, e dopo aver fatto cio` e` stata li` a guardarmi mentre tutt`intorno a me c`era solo distruzione.

Ora nelle tazze da te` rimane solo il ricordo del mio batticuore quando, nei miei pomeriggi di ritorno da lezione in Giappone, passavo alla Seims a prendere del buon sencha o hoojicha in foglie.
Il ricordo di un delicato sole pomeridiano che, bighellonando per i vicoli di Sagamihara, mi aspettava pero` pazientemente sul muretto del supermercato per poi riaccompagnarmi giu` giu` per la Zama Kamijuku 座間神宿 fino a casa.

Bacchette che ora non stanno piu` prendendo parte ai miei esperimenti culinari, ma che per adesso se ne rimangono chiuse in una credenza qui, in una casa come tante, in un quartiere come tanti, nella periferia di Torino.
Alla cucina giapponese che preparavo, che respiravo in Giappone, che assorbivo tramite i racconti delle mie amiche e le pagine dei libri, associo molto di piu` di un buon sapore ed una presentazione gradevole alla vista: cucinare washoku era un momento di pace, di pura creativita`, di contatto con origini che non ho, di calma e gioia.

Questo e` il motivo che ora fa si` che il solo pensiero di voler rimettermi ai fornelli per preparare qualcosa di nipponico a me cosi` caro mi laceri il cuore di dolore.
Non ci riesco. Ci ho provato e ogni volta con risultati passabili, ma perche` manca quella serenita` che ora non c`e`. Nel cuore mi porto la pesantezza di un grande dolore e delusione, dello smarrimento che si prova nel trovarsi tra le macerie costretti a rimettersi in piedi per ricostruire tutto.
Tra le mie cose ho ancora il prezioso ricettario per bento che mi regalo` Saku-chan prima di lasciare il Giappone. Era il suo ricettario personale di quando si e` sposata e aveva bisogno di qualche dritta su come preparare un buon o-bentoo per suo marito e per se`.
Lo sfoglio e lo risfoglio. Ne leggo le ricette, i consigli, le curiosita`, ma la mia mente e` come se fosse in uno stato di semi-trance in cui ogni cosa mi appare ancora cosi` surreale.
E sempre tra le mie cose, conservo ancora due tradizionalissimi o-bentoo-bako お弁当箱 di legno e che mi feci fare appositamente da alcuni artigiani in Giappone, qualche settimana prima di partire. Non ve li ho mai mostrati, ma spero di farlo presto.
Ogni tanto, ma solo ogni tanto, li vado a mirare e rimirare nelle loro scatole e puntualmente ogni volta mi riprometto di dar loro la possibilita` di svolgere la funzione per cui sono stati creati.

Allora riprendo in mano il mio ricettario, ne sfoglio le pagine, sento una stretta al cuore, la malinconia mi attanaglia, e il dolore mi fa venir voglia di chiudere il libro e riporre tutto via nel cassetto della memoria.

Piano piano usciro` da questa gabbia invisibile prima o poi e se Dio vorra`.

Forse superero` anche questa, proprio come ho superato il timore di rimettermi a scrivere.